Nella prima parte di questo viaggio all’interno del mondo omeopatico avevo parlato in generale di cosa è l’omeopatia e di alcune sue pecche.

 

Fra i commenti, reali o virtuali, di chi ha letto l’articolo, si ritrovano numerosi sostenitori delle pratiche omeopatiche ed altrettanti detrattori. C’è stato chi diceva che gli omeopati consigliano ai pazienti di crederci, ma crederci veramente (Io CREDO nelle fate! Ah no, quella era un’altra cosa), chi mi ha accusata di parlare senza conoscere e di essere pregiudiziosa (Ma va? Chi lo avrebbe mai detto?) e chi chiede sempre la fatidica domanda “ma allora perchè funziona?

 

Prometto che al termine di questa serie di articoli tutte le domande avranno una risposta e tutti i dubbi saranno dissipati. Per adesso, vediamo in dettaglio qual è la composizione di un prodotto omeopatico.

 

Come vengono scelti e sperimentati i principi attivi

Come si era detto nel precedente articolo, il medico tedesco Hahnemann, padre dell’omeopatia, aveva gettato le basi per questa pratica sperimentando su sé stesso gli effetti della corteccia di una particolare pianta, la cinchona.

Si era anche accennato che la sperimentazione omeopatica viene eseguita, al giorno d’oggi, nello stesso modo.

 

Scendendo nel dettaglio, attualmente solo la prima fase della sperimentazione omeopatica, in genere, si esegue in questo modo. Inizialmente, infatti, le sostanze da scegliere vengono assunte, in forma non diluita, da volontari sani. Questi registrano poi sintomi, sensazioni e stati d’animo in modo che la specifica sostanza possa poi essere associata ad una patologia. Da ciò si decide anche qual è il tipo di persona più adatto a ricevere una determinata cura, basandosi su alcuni aspetti del carattere del soggetto.

A questa fase può seguire, ma non sempre, in quanto non obbligatoria, una fase di sperimentazione in vitro e su modelli animali. Non trattandosi di farmaci veri e propri, questo passaggio, in teoria, non è richiesto. Tuttavia non sono poche le case produttrici di prodotti omeopatici, specialmente in tempi recenti, che richiedono anche questo genere di sperimentazioni in laboratorio.

Infine l’ultima fase è quella della sperimentazione su pazienti ammalati, momento in cui il “farmaco” viene potenziato e dinamizzato.

 

Tutte queste fasi, che per i farmaci veri e propri sono rigorossissime, devono avere una durata prestabilita e costano anche parecchio, nel caso dei rimedi omeopatici sono completamente stravolte. Non c’è più il rigore richiesto dagli standard delle comunità mediche, niente obbligo di tempi lunghissimi e costi decisamente ridotti.

 

Appare chiaro, analizzando queste righe, che molte volte il principio attivo viene scelto letteralmente a caso. Basandosi sulle sensazioni soggettive, gli sperimentatori volontari scelgono arbitrariamente l’associazione principio attivo\patologia. Cosa succederebbe se un giorno uno dei volontari fosse arrabbiato per motivi personali? Assocerebbe alla sostanza sperimentata sensazioni di rabbia e la consiglierebbe come rimedio a persone irascibili. E se un altro volontario quel giorno si sentisse triste? Attribuirebbe, alla stessa identica sostanza, proprietà curative nei confronti degli stati d’animo depressivi. Tutto questo, nella medicina tradizionale e, in generale, in qualunque ambito scientifico non ha nessuna valenza.

 

Diluizione, potenza e dinamizzazione

I prodotti omeopatici si producono, dopo che è stato scelto il principio attivo, “potenziandolo”, ovvero diluendolo secondo specifiche direttive.

Secondo la medicina omeopatica, la diluizione di una sostanza ne causa il potenziamento. Minore è la diluizione, minore è l’effetto del prodotto. Al contrario con diluizioni maggiori l’effetto è aumentato proporzionalmente. Per tale motivo i rimedi a bassa diluizione vengono indicati per le fasi acute della patologia mentre quelli ad alta diluizione vengono prescritti in caso di malattie croniche.

 

Ma quali sono le regole per diluire un farmaco omeopatico?

Esistono diversi tipi di diluizione. I più comuni sono le potenze decimali, definite con la sigla DH, e quelle centesimali, indicate con CH. Si tratta dello stesso metodo, fondamentalmente, che prevede la diluizione di una parte del principio attivo in 9 parti (DH) o in 99 parti (CH) di diluente. Esiste poi una diluizione, quella di Korsakov (K) che consiste nel preparare una prima diluizione, dopo di che svuotare il recipiente che la conteneva per poi riempirlo nuovamente di diluente puro, ripetendo il gesto diverse volte.

Le sostanze vengono diluite più e più volte, ottenendo diluizioni che variano dalla più comune 12CH (ovvero il principi attivo viene diluito con rapporto 1 a 100 per 12 volte) alle più rare, utilizzate per patologie particolarmente aggressive, pari anche a 200CH.

Dopo ogni diluizione le soluzioni vengono dinamizzate, ovvero agitate energicamente.

 

Per far capire bene al mio interlocutore cosa significa tutto questo, ogni volta pongo lo stesso, banale esempio.

Immaginiamo di prendere un bicchiere colmo di acqua e versare al suo interno, con un contagocce, una singola goccia di caffè. Ora, utilizzando un altro contagocce, si preleva una goccia di liquido dal bicchiere, in cui sarà presente acqua e una piccolissima parte di caffè, e la si versa in un nuovo bicchiere pieno di altra acqua. Prendiamo nuovamente un contagocce e preleviamo ancora una goccia dal secondo bicchiere, per poi versarla in un terzo bicchiere d’acqua e così via, fino a ripetere questo gesto 12 volte. Alla fine, se beviamo il liquido contenuto nell’ultimo bicchiere, stiamo bevendo acqua o caffè? La risposta, ovviamente è acqua. Non troveremo nessuna traccia di caffè in seguito a tutte le diluizioni che abbiamo attuato e nessuno risponderà mai che il contenuto dell’ultimo bicchiere ha il sapore di caffè annacquato.

 

Potrebbe però nascere il ragionevole dubbio che, anche se apparentemente non ci sono tracce di caffè all’interno del bicchiere numero 12, in realtà, a livello molecolare, ci sono ancora residui della sostanza. Per dissipare questa perplessità corre in nostro soccorso la chimica. Senza starmi a dilungare troppo, a causa del numero finito di molecole contenuto in un dato volume di sostanza, dopo una specifica quantità di diluizioni non si avrà più traccia, nemmeno a livello molecolare, della sostanza stessa.

Tutto questo è un riassunto perfetto dell’omeopatia. Principi attivi fortemente diluiti di cui non si trova alcuna traccia nel prodotto finito.

 

Se siamo particolarmente scettici, e non crediamo nè al buon senso (non sto bevendo caffè annacquato) nè ai principi chimici (non ci sono più molecole di caffè), possiamo anche affidarci ad un laboratorio di analisi, che si occuperà di verificare che nell’ultimo bicchiere ci sia solo acqua e che, in un prodotto omeopatico non ci sia traccia del principio attivo.

 

Avete mai provato a leggere l’etichetta di un rimedio omeopatico?

Sull’etichetta dei granuli omeopatici, sotto la dicitura “composizione” si legge che i granuli contengono saccarosio. E basta.

Gli spray nasali omeopatici contengono acqua fisiologica. E basta.

Le creme contengono semplicemente sostanze per donare al prodotto la giusta consistenza, quali acqua, paraffina e vaselina. E… avete indovinato, e basta.

Certo, sono elencati anche i principi attivi, ma sono in una lista a parte, proprio perchè effettivamente, all’interno del prodotto, non ve n’è traccia. Come detto, un qualunque laboratorio di analisi potrà confermare le mie parole.

 

La memoria dell’acqua

Ma allora perchè un farmaco omeopatico dovrebbe avere una efficacia, visto che non contiene, di fatto, principi attivi?

La risposta degli omeopati è la memoria dell’acqua. Si tratta di un concetto, nato per la prima volta alla fine degli anni ’80, che dovrebbe spiegare il principio di funzionamento dell’omeopatia. Secondo quest’idea, l’acqua avrebbe la proprietà di modificare la sua conformazione, a livello molecolare, a seconda delle sostanze con cui è entrata in contatto.

 

Questa teoria presenta, innanzi tutto, diverse pecche. Non si capisce come mai l’acqua dovrebbe mantenere, in memoria, solo le caratteristiche benefiche delle sostanze. Sorge poi il dubbio che, se tutto ciò fosse vero, l’acqua avrebbe memoria di innumerevoli sostanze, non solo di quelle con cui entra a contatto in laboratorio ma anche quelle con cui era entrata in contatto durante il suo ciclo.

Infine, nonostante i numerosi studi a riguardo, l’esistenza della memoria dell’acqua non è mai stata dimostrata e non esiste alcuna prova scientifica che questo concetto sia veritiero.

 

Omeopatia e fitoterapia

Molti ancora confondono queste due parole, che in realtà non hanno nulla a che vedere l’una con l’altra. Abbiamo già visto, a grandi linee, cos’è l’omeopatia. Ma la fitoterapia?

Si tratta di un metodo di cura che utilizza piante o sostanze da loro estratte per curare determinate patologie. La differenza con l’omeopatia sta nel fatto che le piante non sono scelte sulla base delle sensazioni soggettive o delle emozioni, ma basandosi sui principi attivi che contengono, ampiamente studiati. La fitoterapia inoltre non utilizza le diluizioni. I principi attivi presentano, nel prodotto finito, concentrazioni consistenti ed ampiamente assorbibili dal corpo umano.

Dire che l’omeopatia funziona in quanto utilizza estratti di piante medicinali è errato. Il soggetto corretto di questa frase è la fitoterapia, pratica che generalmente si è dimostrata negli studi, al contrario dell’omeopatia, ampiamente efficace.

Ricordo comunque che in alcuni casi la fitoterapia si basa più su credenze popolari che su fatti scientifici, quindi è necessario anche fare attenzione nella scelta del rimedio fitoterapico da utilizzare.

 

Termina qui la seconda parte del percorso, fra qualche giorno verrà pubblicata la terza parte.

Qui trovi la prima parte: L’omeopatia funziona veramente? La risposta breve è “no”

Qui trovi la terza parte: Ma allora perchè l’omeopatia funziona? Guarigioni, coincidenze ed effetto placebo

Qui trovi la quarta parte: Omeopatia: effetti collaterali finti, veri e costi