Quando il bellissimo Antinoo affogò a vent’anni, il suo amante, l’imperatore Adriano, lo divinizzò. Con gli attori è lo stesso. Morire giovani vuol dire fondare un culto, come quello per James Dean, deceduto a 24 anni dopo un frontale con la sua Porsche 550 Spyder. Cory Monteith, l’attore canadese star della serie Glee, non era né giovane come Dean – aveva 31 anni – né altrettanto carismatico. Eppure morendo sabato scorso nella sua stanza al ventunesimo piano dell’hotel Fairmont Pacific Rim di Vancouver, con il corpo ritrovato dal personale dell’al – bergo all’ora di pranzo, ha ottenuto un posto nelle macabre liste che vari siti internet dedicano agli attori spentisi nel verde dell’età. Piccoli templi digitali, mausolei immateriali nei cui loculi cliccabili sono venerate le immagini di queste bellissime e bellissimi che non hanno mai compiuto la mezz’età, e se dovessimo indicare le divinità principali del pantheon, dopo Dean per gli uomini, ci sarebbe senz’altro Marilyn Monroe per le donne, anche se al momento di andarsene colei che all’anagrafe si chiamava Norma Jeane Mortenson era alquanto stagionata: 36 anni. Monteith rispetta le due condizioni essenziali per essere ammessi al sacrario degli attori morti giovani: una vita tormentata, trascorsa nei proverbiali «mille lavoretti» (dopo l’abbandono degli studi a 16 anni) da riparatore di tetti a intrattenitore nei grandi magazzini Wal-Mart, prima di sfondare con Glee nel ruolo di Finn Hudson, campione di football americano che viene reclutato nel gruppo di canto e ballo del liceo, e l’inevitabile sospetto sulla cause del decesso, poiché Monteith già a 19 anni si era sottoposto a un programma di disintossicazione dalle droghe. Ma con i suoi trent’anni compiuti, Monteith non può competere con la nutrita pattuglia di colleghi che si sono bruciati molto prima, proprio come il loro nume tutelare James Dean. Bruciarsi prima vuol dire soprattutto rendere più acuta e dolorosa la domanda: «Cosa avrebbero fatto ancora, se fossero vissuti?». Perciò più se ne vanno giovani, più si ha la sensazione di una promessa tradita, di un’ingiustizia inspiegabile. Sono belli, ricchi, famosi, di quali misteriosi demoni sono infestati i loro pensieri per cercare così rapidamente la via d’usci – ta definitiva? Per credere di trovare la soluzione nella velocità spericolata, nelle sostanze, nell’azzardo estremo? Il più giovane di tutti è River Phoenix, il fratello del grandissimo Joaquin (ma allora non era nessuno) che a ventitré anni e una carriera in iperbolica ascesa si distrusse con un’overdose di eroina, cocaina, cannabis e valium, nel Viper Room, un club di Los Angeles, tra i cui proprietari c’era il maledetto più borghese e flemmatico del cinema americano, Johnny Depp. L’attore Brad Renfro, giovanissima star in pellicole di successo come Il Cliente e L’allievo, saltò nel buio senza fondo iniettandosi una dose fatale di eroina. Anche lui nella città degli Angeli, nel suo appartamento, era il 15 gennaio del 2008. Renfro non era sulla cresta dell’onda come Phoenix, quando si uccise: aveva 25 anni e già si sentiva finito. Brandon Lee, figlio del più famoso interprete di film di arti marziali, Bruce, aveva 28 anni quando venne ucciso da un colpo di pistola accidentalmente sparato sul set del film Il corvo. La pistola doveva essere caricata a salve, e sull’in – cidente sono nate infinite leggende metropolitane, tra le quali anche l’ipotesi di una vendetta della mafia cinese. Ricostruzioni fantastiche che fanno il paio con quelle che vogliono Jim Morrison vivo a Tahiti o Elvis Presley in una casa di riposo del Connecticut. E col suo talento, dove sarebbe arrivato Heath Ledger, morto a 28 anni per abuso di benzodiazepine, regolarmente prescritte per fronteggiare la sua terrificante insonnia? La sua interpretazione del Joker, arcinemico di Batman nel Cavaliere oscuro, gli valse un Oscar per il miglior attore non protagonista, un premio postumo ritirato dalla famiglia. Prima c’era stato l’enorme successo dei Segreti di Brokeback Mountain, sull’amore omosessuale di due cowboy nello scenario rude delle montagne del Wyoming, da una novella di Annie Proulx. Ruoli estremi, complessi, quasi borderline, brillantemente superati. Ma l’insonnia, quella invece, non riusciva a vincerla.