Il massimo che poteva capitare, ai nostri tempi, era supplicare una compagna di ripeterci il programma di Geografia astronomica il giorno prima dell’interrogazione, sperando di assimilare per osmosi quello che la memoria avrebbe inevitabilmente tenuto fuori. Studenti paleolitici. Da intenerirsi, al confronto dei nativi digitali. Piccoli mostri della Rete, che a undici anni (undici!) si preparano al compito in classe sulla Magna Charta Libertatum collegati con Skype. Possibile? «Sì, ed è davvero bello. Tu vedi chi è online e chiami i tuoi amici. Se dobbiamo fare dieci cose, ci suddividiamo i compiti e ce li scambiamo, così ci prepariamo più velocemente », racconta Emma, giovanissima studentessa di prima media alla Sir James Henderson, la scuola britannica di Milano. Federica, undicenne romana che frequenta l’Alfieri, di solito usa Skype quando è in difficoltà con matematica. «Vedere svolgere l’esercizio mi aiuta. E poi è comodo anche quando hai saltato una lezione: per esempio mi è successo con musica, è stato più semplice per me osservare una compagna muovere le dita sul flauto piuttosto che imparare da sola dal libro». Beata gioventù, che studia sempre collegata. Per loro il vocabolario è uno strumento vintage. «Io uso soprattutto lo smartphone, lo tengo sempre vicino, è comodo chattare e sciogliere immediatamente ogni dubbio», spiega Alice, 17 anni, al quarto anno della Deutsche SchuleMailand, la Scuola Germanica di Milano. «Ci sono tre livelli di comunicazione, tra gli studenti. Il primo è la chat, con Facebook o Messenger, il secondo è la voce, al telefono o su Skype, il terzo è voce più video, e si realizza con Skype», fa il punto Giovanni Boccia Artieri, docente di Sociologia dei New Media all’Università di Urbino Carlo Bo. E il collega Alberto Marinelli, che insegna Teorie e tecniche dei nuovi media alla Sapienza di Roma, fa notare come «per questi ragazzi essere fisicamente presenti o essere collegati è la stessa cosa, è una condizione di assoluta e serena quotidianità, fa parte della normalizzazione dell’uso delle tecnologie nella vita di tutti i giorni». Una normalità «sconcertante » per noi che i compiti eravamo abituati a farli nella stessa stanza dei nostri compagni, magari con tanto di pausa per fare merenda. Ma addirittura è «ovvia» per chi è nato con i computer in casa. La Fondazione Giovanni Agnelli nel 2010 calcolò che in Italia il 45,5 per cento dei quindicenni usa il pc da quando aveva dieci anni (la media europea è del 51,7 per cento). Tanto più che i computer sono in nove case su dieci, e i tre quarti sono dotati di connessione Internet. Dobbiamo preoccuparci o dobbiamo rallegrarci? Il pedagogista Giuseppe Bertagna, principale ispiratore della riforma Moratti, è serafico: «Da Platone in poi tutti gli strumenti si sono adattati ai tempi. Il concetto stesso di qualità è cambiato. La scuola non può non tenere conto della globalizzazione e dell’evoluzione tecnologica. Più che scandalizzarci, dovremmo tematizzare il problema, trasformarlo in una opportunità per produrre formazione. Trovo interessante togliere Skype e affini alla gestione anarchica degli studenti, per renderlo uno strumento pedagogicamente legittimato dall’insegnante. Il vero problema, oggi, è che le giovani generazioni hanno bisogno di essere accompagnate da persone in grado di interloquire con i nuovi strumenti e trattarli in maniera produttiva». Purché non si arrivi al caso estremo della North Miami Beach High School, dove gli insegnanti di inglese, storia e matematica sono stati sostituiti da tanti computer, dove i corsi si seguono online.