Sembrava fatta: «Sfiducia». Poi, complice l’arrivo nella Capitale dei figli, il Cavaliere aveva cominciato a titubare. Più che la preoccupazione per la tenuta delle Borse, per il rischio di ritrovarsi decaduto dalla carica di senatore e agli arresti, ha potuto l’ira, mista alla delusione di sentirsi tradito da chi «ho trattato come un figlio». Giunto al Senato scuro in volto, Silvio Berlusconi si è seduto al suo banco ed ha sfidato con lo sguardo i “suoi” ministri, seduti al banco di quel governo cui lui aveva chiesto di staccare la spina, che avevano violato così palesemente le sue indicazioni. Di più, che lo stavano ricattando. Gaetano Quaglieriello teneva sotto braccio i nomi dei senatori pronti a votare la fiducia, ben ventitré. C’erano i ciellini, gli ex democristiani, i siciliani…. Il Cavaliere aveva pensato di uscire dall’angolo con un bagno di «democrazia», utilizzando anche un piccolo trucco. Ha convocato nella Sala Koch di Palazzo Madama una riunione del gruppo parlamentare allo scopo di fare uscire allo scoperto i «traditori», metterli in minoranza. Si sono presentati in 60 su 90. Allora, per sentirsi più tranquillo, ha chiesto che si aggregassero anche i vertici del gruppo alla Camera: il presidente Renato Brunetta, la vice Maria Stella Gelmini, la portavoce Mara Carfagna. Con loro la leader della Giovane Italia, Annagrazia Calabria. Il Cavaliere ha illustrato rapidamente le sue idee, ha chiesto se c’erano obiezioni, le ha messe ai voti. «Nessuno ha proposto di votare la fiducia», ha puntualizzato al termine Brunetta. Tra i presenti pochi immaginavano che il Cavaliere potesse riconfermare la fiducia ai «traditori», coloro che, come aveva spiegato sul numero di Panorama in edicola, l’han – no «pugnalato alle spalle sull’Iva», ad un premier «inaffidabile » come l’aveva definito su Tempi. Intanto Denis Verdini e i suoi collaboratori si erano messi a far di conto. «Mancano due senatori a vita, voteranno la fiducia solo due grillini, siamo sul filo», sussurrava un deputato fedelissimo del Cav. Sembrava di essere tornati al 2011, ai peones che tenevano in piedi un esecutivo. Ma, complice anche il duro intervento in Aula di Sandro Bondi a nome del Pdl, minuto dopo minuto sono spuntati nuovi dissidenti, tutti pronti a seguire il segretario nella sua battaglia. Gli eletti siciliani, innanzitutto. Il solo Renato Schifani, visibilmente in imbarazzo al punto da chiedere a Berlusconi di assumersi lui la responsabilità della dichiarazione di voto, si diceva «fedele ». Tutti gli altri, calcolavano i falchi, si erano «messi all’asta». Resisteva solo il gruppo di Gianfranco Micciché. A un certo punto a Palazzo Madama è stato richiamato in tutta fretta il governatore calabrese Giuseppe Scopelliti. Volevano controllasse i suoi corregionali: «I calabresi sono fuori controllo», ammetteva uno degli sherpa. Il Cavaliere si è trovato in un angolo, l’ultima conversazione di Verdini sembrava una supplica: «C’è una maggioranza, ma non reggerà a lungo. Rompiamo». Qualcuno dice che, provato da una lunga nottata di trattative, il dominus dell’organizzazione Pdl, si sarebbe abbandonato a qualche lacrima. A quel punto è scattato il blitz: Paolo Romani, MaurizioLupi e Maurizio Gasparri l’hanno raggiunto e trascinato quasi a forza nello studio di Schifani, lontano dalle «grinfie» dei falchi che lo circondavano. A quel punto, a sorpresa, nell’ufficio è entrato – non annunciato – Angelino Alfano. Prima c’è stato un duro scontro, poi il Cavaliere ha capito e si è arreso. Troppo grosso lo smottamento, troppi i «traditori», troppo diversi tra di loro per pensare di recuperarli tutti. Lì il Cavaliere ha partorito la svolta. Voleva fare una cosa alla “Silvio” e l’ha fatta, senza ambasciatori, ma mettendoci la sua faccia. «È stata una decisione travagliata, ma voteremo la fiducia», ha annunciato nel suo breve intervento, l’ultimo da senatore. Il più difficile. L’unica consolazione è stata quel labiale di Enrico Letta: «È un grande!».