Alle nove di sera, a Palazzo Grazioli, torna tutto com’era in partenza: Silvio Berlusconi circondato dai falchi che trama per mandare a gambe all’aria il governo Letta. È l’epilogo di una giornata che poteva prendere una piega diversa. Votata fino a un certo punto alla trattativa, per evitare la drammatica spaccatura del Popolo della libertà. E poi finita nel muro contro muro, con Berlusconi che ordina di votare la sfiducia ma che è già pronto a contare «i traditori». Forse il vero epilogo ci sarà soltanto stamattina, quando i senatori azzurri entreranno in Aula. I numeri hanno ballato tutta la notte. Berlusconi ha chiamato uno per uno i suoi senatori per chiedere di essere leali «non solo con me, ma anche con gli elettori che ti hanno portato in Parlamento ». Le stime di Palazzo Grazioli, fornite da Denis Verdini, dicono che sono sul filo di lana, i berlusconiani ortodossi e i diversamente berlusconiani. Questi ultimi sono una ventina. Forse troppo pochi per assicurare soglia 161 al governo delle larghe intese. Ma a Palazzo Chigi, dove è rinsaldato l’asse Alfano- Letta, i conteggi sono altri. Secondo il ministro dell’Interno i pidiellini lealisti sono 40-50, forse anche 60. E sono destinati a crescere, dicono, quando i senatori azzurri vedranno i cinque ministri seduti di nuovo accanto al premier. Simbolo rassicurante della prosecuzione della legislatura. Almeno fino al 2015. «No gruppi e gruppetti », dice Alfano, che si aspetta un voto massiccio per la stabilità. Silvio mastica amaro. Nell’ultimo drammatico faccia a faccia con Alfano scarica tutta la sua rabbia contro il delfino: «Angelino, tu mi tradisci così? Mi pugnali alle spalle proprio adesso che ho tutti contro: la sinistra, il Quirinale, i magistrati…». E ci risiamo. Tutti aspettano questo 2 ottobre per consegnarlo ai libri di storia. Insieme alla parabola politica di Berlusconi. Ma l’ex premier intende combattere fino all’ultimo. Sarà in Senato. Vuole provare a persuadere gli indecisi e vuole «guardare in faccia i traditori». È stata una giornata lunga. Il Cavaliere, prima di tornare a riallinearsi con i falchi, ha provato anche la strada della trattativa. A un certo punto era pronto a rivedere la sua posizione sulla sfiducia. In cambio, per non perdere la faccia, aveva chiesto a Letta un rimpasto di governo: la testa del ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni, considerato il responsabile dell’aumento dell’Iva. E il turn-over delle ministre azzurre, da sostituire con Mariastella Gelmini e Mara Carfagna. Letta? Attraverso zio Gianni manda a dire al suo predecessore che non ci pensa proprio. Non esiste, non scende a patti con il Cavaliere. Anzi, fa sapere che intende tenere un discorso «invotabile » per i berluscones. Non lo vuole più in maggioranza, il capo del governo, e farà di tutto per assecondare la scissione nel Pdl. Silvio è furioso. Anche perché nel frattempo la delegazione azzurra al governo, riconfermata da Letta (che respinge le dimissioni volute da Berlusconi), fa massa critica e si prepara a guidare la rivolta antiberlusconiana. Abbandonato dal suo delfino. Fuori dal governo e dalla maggioranza. Alla vigilia della decadenza dal seggio parlamentare e dall’affidamento ai servizi sociali. Assediato dalle procure di mezza Italia. Non se la passa certo bene, il Cavaliere. Lui però ci vuole credere, non si rassegna. Proverà fino alla fine a convincere i suoi senatori, a offrirgli una prospettiva politica di respiro. «Combatterò fino all’evidenza dei fatti». Sempre che Angelino abbia fatto i conti giusti.