«La Fiat ci ha informato che sta riconsiderando costi e benefici di una collaborazione più stretta con noi di Chrysler e le condizioni a cui potrebbe continuare a condividere tecnologia, architettura dei veicoli e piattaforme, nonché reti commerciali, siti produttivi, risorse manageriali ed engineering». Insomma, Sergio Marchionne nelle vesti di numero uno di Chrysler fa sapere che lo stesso Marchionne, stavolta come numero uno di Fiat, potrebbe rompere o quantomeno rallentare la collaborazione tra le due aziende. Anche questo si legge nel File S-1 che lunedì Chrysler ha consegnato alla Sec per avviare la quotazione in Borsa meno voluta, quantomeno da lui, della storia di Wall Street. Una quotazione, od Ipo, davvero bizzarra: a offrire le azioni è il socio di minoranza, il fondo Veba, che ha in mano il 41,5% della casa di Detroit, a fronte degli impegni per assistenza medica e pensioni per 65.000 dipendenti. Ma non si sa né quanti titoli né a quale prezzo. Per ora, come vuole il regolamento, è stato comunicato solo l’offering price (un’indicazione utile a fissare il prezzo delle commissioni) pari a 100 milioni di titoli. Il resto è tutto da negoziare, con la freddezza che richiede un poker che si apre con una puntata al buio miliardaria: da una parte Sergio Marchionne, che non intende pagare più di 3 miliardi dollari la quota del sindacato; dall’altra un osso duro, Erickson Perkins, già stimato analista dell’auto a Wall Street che finora, lungi dal concedere sconti, ha alzato il prezzo. Un anno fa, a suo dire, la quota Chrysler valeva 4,2 miliardi. Ma da allora le cose sono continuate a migliorare, al punto che oggi quel pacchetto vale 5 miliardi, anzi di più. Le posizioni, insomma, restano distanti. Gli analisti Usa sono più dalla parte dell’Uaw, stimando che la quota Chrysler, paragonata ai prezzi di Borsa di Ford e Gm, vale tra 4,2 e 4,5 miliardi. Marchionne, però, non ci sente: d’altronde Gm,dopo la quotazione, è precipitata, a conferma che le pretese di Stato e sindacati erano eccessive. Nemmeno il giudice del Delaware, cui si sono rivolti i duellanti, ha saputo venire a capo della questione, complicata dalle azioni previste a vantaggio di Fiat sul 16,6% del capitale che l’Uaw contesta, non nel merito, ma sul prezzo. Il giudice Parsons, di fronte alla mole degli argomenti sollevati dagli avvocati, ha deciso di fare il Ponzio Pilato: sbrigatevela da voi, altrimenti ci rivediamo nel 2015. Di qui la decisione di far fissare il prezzo alla Borsa, in un duello che ha il sapore della sfida all’Ok Corral. «L’Ipo – spiega Giuseppe Berta, storico dell’economia e grande esperto di mondo dell’auto – è l’unico modo per Marchionne per stabilire un prezzo di mercato, visto che lui non vuole né può pagare il prezzo chiesto da Uaw. È l’ultima carta che lui può giocare per centrare l’obiettivo principale della sua strategia: la fusione entro un anno». Già, ancora una volta l’ad Fiat gioca il tutto per tutto. Marchionne vuole arrivare alla fusione e alla successiva quotazione di Fiat-Chrysler al più presto, per sfruttare a Wall Street l’ottimo momento dell’auto americana. Ma, soprattutto, con la fusione sarà possibile accedere al credito Usa a tassi molto più convenienti anche per gli investimenti in Europa, necessari per rinfrescare l’offerta nel Vecchio Continente e accelerare il rilancio dell’Alfa. Anche per l’Uaw la quotazione potrebbe essere un ripiego: le commissioni possono arrivare al 7% della cifra incassata. Senza trascurare il fatto che gli uomini dell’Uaw, che hanno appena incassato 3,2 miliardi di dollari dalla cessione di azioni Gm, non sono certo sprovveduti incapaci di valutare il costo di un’eventuale rottura con Fiat. Insomma, entrambi hanno qualcosa da perdere (più Fiat, per la verità). Per questo l’opinione più diffusa è che l’Ipo, alla fine, non si farà. «Il processo di quotazione – spiega da Londra Philippe Houchois, analista Ubs – serve alle parti per fissare un prezzo. Alla fine, una volta definito il valore, Chrysler avrà facoltà di fermare il processo». E la Fiat di decidere se vedere il gioco dell’avversario o uscire dal gioco. Roba da infarto. Anche se, sotto il tavolo, i duellanti non stanno con le mani in mano. Non a caso Marchionne si è affidato a Rin Bloom, lo zar dell’auto scelto da Obama nel 2009. Fu lui a convincere il sindacato a dar retta a quel bizzarro italiano che imprecava come un camionista di Toronto. Forse ci riuscirà di nuovo.