Può il suicidio essere considerato una malattia da lavoro? Sì, ha stabilito con una sentenza che fa precedente il giudice del lavoro del tribunale del lavoro di Venezia, Anna Menegazzo.
Il caso riguarda Sandra Bottacin, 52 anni, addetta al controllo di flebo e flaconi in un laboratorio dell’azienda farmaceutica Monico di Favaro Veneto.
Nel 2006 la donna si tolse la vita gettandosi dal tetto dell’azienda, gesto che può far pensare a un atto dimostrativo contro la Monico, in cui si vivevano giorni di grande tensione: durante i suoi controlli, Bottacin aveva individuato due partite di prodotti contaminati da eliminare.
Una pesante perdita economica per l’azienda, né era la prima volta che si verificava un tale incidente, già in passato il proprietario aveva scaricato i costi di una partita inutilizzabile sui dipendenti, ritenuti responsabili. Stavolta però Sandra Bottacin non poteva avere responsabilità, perché, come ha ricordato il marito sul Corriere Veneto, lei «era l’ultimo anello della catena di comando». Altri prima di lei dovevano assicurarsi che i farmaci fossero integri. Tuttavia alla nuova reazione furente del proprietario lei si era convinta che sarebbe stata ritenuta non solo responsabile, ma l’uni – ca responsabile. In una lettera lasciata nell’armadietto, la donna scriveva: “Di quello che è successo, alla fine la colpa sarà mia”. Subito dopo la tragedia, il marito si è rivolto allo sportello Contromobbing del comune di Venezia con tutti i documenti che, a suo parere, provavano che la moglie si era uccisa per motivi direttamente riconducibili allo stress e alle intollerabili pressioni psichiche sul luogo di lavoro, in relazione all’episodio della partita di farmaci fallati. Tramite l’avvocato Saveria Aversano, i familiari della donna tentarono una strada senza precedenti: una causa in cui il suicidio per mobbing venisse equiparato a una malattia professionale e, quindi, risarcito con un assegno mensile ai superstiti, coniuge e figli minori o con handicap.
L’Inail avviò un’ispezione che, pur accertando che la dottoressa Bottacin viveva in un “ambiente di lavoro altamente stressante”, non poté indicare una relazione diretta tra il clima pesante alla Monico e il suicidio. I familiari si sono così rivolti al tribunale del lavoro che, sulla base della relazione degli ispettori Inail, di una perizia medico-legale e di alcune testimonianze di parenti e colleghe di Bottacin, ha stabilito, lo scorso luglio, che il suicidio della donna era direttamente riconducibile allo stress in azienda, e condannato la Monico a un risarcimento e alla rendita mensile in favore dei congiunti. Il caso è assai spinoso. Non conosciamo nel dettaglio gli elementi in base ai quali il tribunale ha deciso che Sandra Bottacin si è uccisa proprio perché oppressa e terrorizzata dai suoi capi nella Monico in relazione alla faccenda dei farmaci contaminati.
Osserviamo che se ci sono prove inequivocabili, dovrebbe aprirsi anche un fronte penale per istigazione al suicidio, eppure in sette anni questo non è avvenuto. Non per caso, forse, perché, è qui che la sentenza crea una precedente controverso: quando mette sullo stesso piano il suicidio e una normale, per quanto grave, malattia fisica. Con molte malattie del corpo è facile ricondurre gli effetti degenerativi a una causa di logorio ben precisa sul luogo di lavoro. Ma quel naufragio della mente che è il suicidio è la risultante finale di una vastissima e complessa massa di cause, che agiscono su una psiche individuale che è anch’essa coinvolta nella decisione fatale. Dipanare la matassa di in suicidio, ci sembra, non è affare da tribunali del lavoro. Se infatti la scelta del giudice è troppo discrezionale, a ogni suicidio può, in qualche modo, riconoscersi il diritto del risarcimento.
Quale suicida non vive in una condizione di stress? Quale suicida non ha contatti con ambienti di forte pressione? Un suicidio è un dramma profondissimo, ma la spinta, sia pure umana, a fare giustizia non deve diventare un arbitrio.