Esistono giochi che sono più importanti di altri. Giochi che con la loro semplice esistenza contribuiscono a far salire di livello un’intera industria creativa, elevandone la dignità con i propri sforzi e meriti. Esattamente come la città sospesa nel cielo Columbia, il progetto di Ken Levine e compagni suona come un vero e proprio atto di hubris. Usare un videogioco per parlare di temi importanti o, peggio ancora, fare uso di uno sparatutto in prima persona, è un’ambizione sotto il cui peso chiunque rischierebbe di cedere. Ma Irrational Games riesce a portare avanti una visione narrativa di estrema lucidità, pregnante e significativa dal punto di vista tematico. La vera questione non è inserire qualche parola scomoda, tipo “razzismo”, e giocare a fare i grandi. Perquanto, lo ammettiamo, è inevitabile rimanere interdetti di fronte alla comparsa nel gioco di una raffigurazione stereotipica di un asiatico o un afroamericano. E non si tratta nemmeno di rifilare l’ennesima retorica preconfezionata da videogioco, buoni contro cattivi. La sceneggiatura di BioShock Infinite aggira con sapienza questi trabocchetti, risultando in ultima analisi più matura e assai meno manicheista del suo capostipite. Di fronte alla complessa ed elaborata mitologia di Columbia, che tira in ballo temi come il razzismo o l’eccezionalismo americano, il già di per sé struggente dilemma delle Sorelline, che tanto ci aveva lasciati esterrefatti, rischia ora di apparire acerbo e riduttivo. In BioShock Infinite non ci saranno più pacchiani trigger narrativi a interrogare la nostra coscienza. Il giocatore, in questo senso, viene lasciato molto più libero di farsi un’idea, di costruire una personale visione del mondo alieno dal quale si ritrova a essere circondato. Tutto questo è possibile grazie alla forza sorprendente della scrittura, che anima e caratterizza ogni più piccolo anfratto di Columbia, persino quando calata in un contesto, quello di uno sparatutto in prima persona, che cospira in ogni istante a stuprarne l’essenza. Eppure, Levine e compagni hanno dato anima e corpo per domare questa brutta bestia, e assoggettarla al volere di un unico, grande demiurgo: il narratore. Si prova un po’ di sconforto quando, dopo neanche 10 minuti dall’inizio del gioco, ci si ritrova a correre e sparare dietro le coperture. Ma poi, il proprio spirito viene rinfrancato, dall’emozionante sequenza in cui Elizabeth conosce per la prima volta la libertà, non prima di aver spiato la ragazza nei suoi gesti quotidiani e averla salvata dalle grinfie del suo feroce guardiano Songbird. Quando Elizabeth comincia a ballare spensierata sul porticciolo di Columbia, abbiamo finalmente anche noi un secondo per ammirare un panorama che solo col videogioco e nel videogioco trova la sua ragion d’essere. E in quel momento che riscopriamo perché, ancora una volta, ci siamo lasciati sedurre da una storia che siamo chiamati a vivere attraverso un joystick. È un continuo odi et amo, BioShock Infinite, e più si va avanti più ci si rende conto di come Levine e compagni stessi abbiano dovuto fare i conti con la non facile impresa di creare un racconto dove il protagonista, per tutta la sua durata, tiene in mano una pistola. I tentativi di arginare gli spargimenti di sangue sono lodevoli, ma sono anche tutti indicativi dei limiti del modello FPS. Perquanto affascinanti e ben orchestrate, le sequenze stile “dark ride” di disneylandiana memoria sono un’idea efficace che assume i contorni dell’espediente di comodo. Ma il fatto che si provi quasi fastidio a impugnare una pistola, è solo testimonianza di un gioco che ha tutto il potenziale per coinvolgere il nostro cuore e la nostra mente, ancora prima che i nostri riflessi. Non arriveremo al punto di dire che i momenti migliori di BioShock Infinite sono quelli in cui non si spara, ma è innegabile che Irrational Games sia riuscita ancora una volta a costruire un gioco dove il traino non è il piacere che si ricava dall’uccisione, bensì il gusto per una narrazione ricercata e ambiziosa. Un gioco dove ritmo non vuol dire necessariamente aumentare il volume delle esplosioni sullo schermo, ma anche saper gestire una gamma ondivaga di emozioni, che va dal furore della battaglia a un semplice scambio di battute con la bella Elizabeth. Non capita molto spesso di parlare di razzismo e potere bianco all’interno di un videogioco, né tanto meno di assistere a un qualsivoglia commento sociale. Figuriamoci poi una vera e propria critica. Perché la storia di BioShock Infinite non racconta solo di una vaga utopia andata orribilmente storta, né è tanto meno un vacuo e facile discorso sull’oscurità dell’animo umano. Infinite ha un bersaglio ben preciso, ed è il popolo americano, con tutti i peccati che ha commesso e il lungo strascico di sangue che lascia dietro di sé lungo il cammino della storia. E difficilmente vi toglierete dalla mente il sospetto che il vero nemico di BioShock Infinite sia proprio l’uomo bianco. Potrete trovarvi d’accordo con la nostra visione. 0, perché no, essere completamente in disaccordo. Ma è proprio questo il punto: Irrational Games ha dato vita a una storia complessa, che sopravvive ai credits del gioco, crescendo dentro di noi e lasciandoci con una lunghissima serie di interrogativi aperti sul senso di quello che abbiamo appena vissuto. Ma il viaggio di Irrational Games verso un futuro dove i videogiochi possano essere rilevanti e indipendenti è solo all’inizio. Con BioShock Infinite, il videogioco entra definitivamente nell’adolescenza. Fragile, incline agli errori e alle ingenuità della fanciullezza. Ma con una pulsione irresistibile a voler capire chi è e cosa vuole diventare, e con lo sguardo rivolto ad un orizzonte sconfinato e colmo di possibilità. Ad altiora.