La sesta sezione della Cassazione ha impiegato una manciata di minuti di Camera di consiglio per cestinare la fondatezza della richiesta dell’ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi di trasferire a Brescia i suoi processi «diritti tv Mediaset» e «Ruby» allo scopo di sottrarli a tutti quei motivi che, ad avviso del capo del Pdl, a Milano minerebbero imparzialità dei giudici e serenità delle parti. Quei motivi, stabilisce ieri la Cassazione nel rigettare l’istanza e condannare Berlusconi al pagamento delle spese processuali, non esistono. Non lo sono i rigetti di «legittimi impedimenti» per malattia dopo visite fiscali, e nemmeno le ravvicinate udienze «in assoluto contrasto—lamentava la difesa del Cavaliere — con gli auspici, recentemente rivolti dalle alte cariche dello Stato (cioè il presidente Napolitano, ndr), di consentire all’on. Berlusconi di poter svolgere, pur nel rispetto di ragionevoli tempi processuali, anche la propria attività politica ». Quanto ai «tragici fatti di vita personali» di Alessandra Galli (una delle tre giudici del processo Mediaset), espressione con la quale la difesa Berlusconi si avventurava nell’evocare l’assassinio del padre magistrato Guido ad opera di Prima Linea nel 1980, per la Cassazione evidentemente non «inficiano la serenità di giudizio », sempre per parafrasare l’ex premier che l’accusava anche di aver «pesantemente criticato l’operato del governo Berlusconi» per aver detto, nel 2010 all’allora ministro della Giustizia Alfano nel «Giorno della Memoria delle vittime del terrorismo» al Quirinale, che non riusciva ad accettare «la costante denigrazione del lavoro di mio padre e ora mio». Allo stesso modo, in attesa delle motivazioni, è già ora evidente che dalla Cassazione non sono state ritenute di alcun pregio le tesi di Berlusconi sul fatto che il pm del processo Ruby, Ilda Boccassini, poiché ritiene di aver subìto parecchie diffamazioni dai giornali di Berlusconi e ha dunque cause in corso con essi, avrebbe «ragioni economiche in conflitto con società controllate da Berlusconi». E non c’è posto, fuori dalle ordinarie impugnazioni, per le doglianze di Berlusconi sulle giudici di primo grado della separazione da Veronica Lario, che lo avrebbero vessato con una condanna «a una cifra addirittura superiore ai suoi guadagni », o sui 565 milioni da risarcire a De Benedetti per la corruzione Fininvest del giudice del lodo Mondadori. Per la Cassazione, inoltre, l’azione disciplinare avviata contro una giudice del processo Mills per un passo delle motivazioni non è, come invece per Berlusconi, «la prova dell’aggressività dell’ambiente giudiziario milanese che non sopporta chi assuma provvedimenti non sfavorevoli a Berlusconi». E non c’è nulla di fuori dal sistema nel fatto che D’Avossa eMagi, giudici di due processi di primo grado conclusi di recente con condanne di Berlusconi, nel 1997 avessero già avuto la ventura di «condannarlo con sentenza poi riformata». È la seconda volta che Berlusconi, che spesso ha accreditato il complotto giudiziario, si azzarda a proporre in modo formale l’argomento del «legittimo sospetto» alla Cassazione, chiedendole di usare una legge fatta nel 2002 dalla sua maggioranza per portar via i processi; ed è la seconda volta che si vede dare torto, come già nel 2003 nel processo Sme/Ariosto. Istruttivo, non a caso, suona il silenzio tombale che nel Pdl ha accolto la bocciatura in Cassazione: neanche lo straccio di un commento, neppure da uno dei 100 parlamentari che l’11 marzo, capitanati dall’exministro della Giustizia e oggi ministro dell’Interno, avevano inscenato prima la manifestazione sulla scalinata del Tribunale e poi l’«invasione » sin davanti all’aula del processo Ruby. Lo stesso Berlusconi, al Tg5, ripiega su un «confido in una sentenza di piena assoluzione, a meno che si voglia, ancora una volta come da 20 anni, tentare di eliminarmi per via giudiziaria». Del resto, Berlusconi e i suoi legali erano i primi a disinteressarsi dello scontato esito negativo dell’istanza presentata il 15 marzo, visto che a stargli a cuore era piuttosto l’effetto indotto di stop obbligato dei processi (in attesa della Cassazione) prima della formazione del governo e dell’elezione del capo dello Stato: l’Appello sui diritti tv Mediaset era alla penultima udienza e sabato 23 marzo sarebbe andato a sentenza con la riforma o conferma dei 4 anni per frode fiscale (più 5 di interdizione dai pubblici uffici) inflitti in primo grado, mentre il processo Ruby avrebbe avuto in calendario il 18 marzo la fine della requisitoria iniziata dai pm il 4 ma bloccata prima da un problema agli occhi e poi da impedimenti politici. Adesso in teoria si riparte lunedì nel processo Ruby, e già domani con il processo d’appello Mediaset, dove però la difesa chiederà un’altra sospensione: stavolta in attesa che la Corte costituzionale (che una settimana fa ha rinviato la propria Camera di consiglio) decida sul conflitto di attribuzione sollevato nel 2011 dal governo Berlusconi contro il Tribunale del processo Mediaset sul «legittimo impedimento » che i giudici l’1 marzo 2010 non riconobbero in un improvvisato (benché ordinario) Consiglio dei ministri.