Sembrava un caso. E invece lo ha ripetuto anche nella occasione più ufficiale che un pontefice posa avere: la prima messa di insediamento. Anche ieri Francesco, che un tempo fu cardinale Jorge Mario Bergoglio, ha parlato di sé davanti ai grandi della terra che erano venuti a conoscerlo e omaggiarlo. E non si è chiamato «Papa», ma sempre «vescovo di Roma». Come ha fatto la sera stessa della sua nomina, definendo anche il suo predecessore, Joseph Ratzinger, «vescovo emerito di Roma», e non «Papa emerito» come da giorni i media di tutto il mondo lo stavano definendo su indicazione del portavoce della salata stampa vaticana, padre Federico Lombardi. Certo che il Papa è anche vescovo di Roma. Ma Francesco fino a qui solo quella carica ha citato: sposo della Chiesa di Roma. Perfino ai fedeli, ai bambini, non ha chiesto «pregate per il Papa» (eppure Francesco chiede a tutti sempre prima di tutto di pregare per lui). Non sembra un caso, ma proprio il programma di Bergoglio alla guida della Chiesa. In quel suo insistere sul «vescovo di Roma», c’è davvero la differenza teologica e politica che lo distanzia di più da Benedetto XVI: l’idea di una chiesa guidata collegialmente, da un primus inter pares come Pietro fu davanti agli altri apostoli. Non è uno strappo, evidentemente, ma non è nemmeno questione così di poco conto, o aspetto che possa animare solo i dibattiti fra fini teologi o storici della Chiesa. Quello di Francesco sul «vescovo di Roma» è solo un accento, che però spiana già (ed è accaduto ieri dopo mille anni con un segno della pace), la possibilità di rapporti con le altre chiese, in particolare quelle ortodosse. È anche atto politico che fa presagire un modo diverso di guida della Chiesa da quello cui eravamo abituati. Il vescovo di Roma è il primo dei vescovi del mondo, ma ha bisogno di loro per la guida della Chiesa. Di loro e delle loro Chiese, che agli occhi di Francesco contano assai più delle prefetture di Roma, della Curia. I più critici dopo l’elezione di Bergoglio già si stanno preoccupando di quel che può accadere: affidarsi alle chiese del mondo significa inevitabilmente affidarsi ai vescovi che guidano quelle chiese, e non è detto che siano migliori dei cardinali che stanziano a Roma. Questo però sembra il «programma» di Bergoglio: a chi è più vicino spesso ha confidato di vedere troppi cardinali intorno al Papa in Vaticano. Il vescovo di Roma non ha bisogno di tutta quella compagnia, e il popolo di Dio non deve avere i vertici della Chiesa così lontani anche fisicamente. L’idea è quella di fare tornare a casa molti cardinali, di riportare vicine al popolo di Dio le ossature principali delle prefetture: spargere la Curia per il mondo. Gradualmente, certo. Ma in modo inesorabile. Un cambiamento che è la vera rivoluzione di Francesco. Assai più di quella gridata dai media in questi giorni: certo che Bergoglio ha una predilezione anche visibile e sperimentabile per gli ultimi, ma questo è il cuore stesso del cristianesimo, una rivoluzione che ha più di duemila anni alle spalle. Chi ha assistito alla celebrazione di ieri non ha trovato chissà che di rivoluzionario in Francesco: nemmeno nella liturgia scelta, che era assai simile a quella voluta da Ratzinger. Unica differenza l’omelia tenuta in piedi dall’ambone, davanti al leggìo, come un parroco di una qualsiasi chiesetta. Sono piccole sfumature, non cambiamenti radicali. Questi verranno nella gestione del Vaticano presto. Forse non nel modo che tutti si attendevano: il lungo incontro fra Francesco e il segretario di Stato dimissionario Tarcisio Bertone è stato assai cordiale, più del previsto. Da ieri si fanno più concrete le possibilità di un passaggio morbido delle consegne: Bertone compirà 79 anni il prossimo 2 dicembre, e in ogni caso dovrà lasciare. Potrebbe comunque restare in carica fino all’estate o perfino dopo. Probabile invece che venga annunciata prima la sua successione. E anche qui potrebbe arrivare una sorpresa, nella linea della collegialità: non la nomina di un segretario di Stato, ma di due pro segretari, come accadde con Montini e Tardini negli ultimi 18 anni del pontificato di Pio XII. Uno dei due dovrebbe essere l’attuale nunzio apostolico a Caracas, Pietro Parolin. L’altro potrebbe essere il francese Dominique Mamberti. Due arcivescovi , ma soprattutto nessun cardinale elettore a cui dare la nomina tanto ambita rischiando di divenirne poi prigioniero.