Lotta tra giganti terzo atto. Dopo il recente slittamento alla Camera dei rappresentanti di Washington della Sopa—la proposta di legge che autorizzerebbe Dipartimento di Giustizia e titolari di copyright a procedere legalmente contro i siti pirata che violano il diritto d’autore — ieri il Senato Usa ha annunciato che martedì prossimo non voterà l’omologa legge nota come Pipa (Protect Intellectual Property Act). «Alla luce degli eventi recenti, ho deciso di rinviare il voto di martedì», ha dichiarato il capogruppo della maggioranza democratica al Senato, Harry Reid, che però non ha fissato una nuova data per deliberare sul decreto contro la pirateria online che mercoledì scorso ha provocato lo sciopero del Web. Un evento senza precedenti cui hanno aderito i colossi di Silicon Valley, (da Wikipedia a Google e Facebook) che hanno accusato il Congresso Usa di voler censurare la libertà di espressione sul web. Tutto ciò all’indomani della chiusura del sito Megaupload, con l’arresto del fondatore. E la sensazione è che la linea dura sulla tutela del copyright potrebbe continuare costringendo altri alla serrata e imponendo regole più severe anche a colossi come YouTube. Contromossa degli hacker di Anonymous che hanno diffuso in Rete i dati privati del capo dell’Fbi. Forte dell’alleanza della «old economy » (major hollywoodiane, editori di libri, sindacati e case discografiche), il partito pro-censura non ha alcuna intenzione di gettare la spugna. Secondo il presidente della commissione Giustizia della Camera, il repubblicano Lamar Smith, «resta chiaro che dobbiamo rivisitare il nostro approccio al problema dei ladri stranieri che rubano e vendono invenzioni e prodotti americani». Per il presidente della Motion Picture Association of America Chris Dodd, «le proteste delle Rete contro Pipa e Sopa sono paragonabili alla Primavera Araba». «Abbiamo assistito al primo tsunami popolare che dal basso è riuscito a invertire l’onda del Congresso», teorizza Dodd, ex senatore democratico del Connecticut e uno dei grandi promotori delle due leggi. Mentre i media parlano già di «battaglia vinta», l’esito della guerra resta incerto. La legge sembra avviata a una riscrittura, ma ci vorrà un negoziato che si annuncia complesso. Reid è ottimista. «Non c’è motivo che le questioni legittime sollevate da molti su questa proposta di legge non possano essere risolte —precisa il senatore democratico —. La contraffazione e la pirateria online costano all’economia americana miliardi di dollari e migliaia di posti di lavoro ogni anno». In attesa di una legge, il governo Usa non sta a guardare. Mentre il dipartimento della Giustizia annunciava la chiusura del sito pirata Megaupload, accusato di violazione di copyright e riciclaggio di denaro sporco, emergono i dettagli dell’arresto in Nuova Zelanda di 4 dirigenti della società guidata da Kim Schmitz, noto come Kim Dotcom e detentore di doppia cittadinanza: finlandese e tedesca. All’alba, mentre due elicotteri sorvolavano l’opulenta magione di Dotcom ad Auckland, il 37enne pirata ha cercato riparo in un caveau. Ottanta agenti hanno usato il martello pneumatico per aprirsi un varco attraverso le sofisticate barriere elettroniche. All’interno della villa la polizia ha estratto 4,8 milioni di dollari in contanti, 18 auto di lusso tra cui una Rolls-Royce coupé e una Cadillac rosa del ’59 con la targa «God» (Dio) oltre a quadri d’autore e gioielli. Si è trattato di un colpo d’immagine straordinario per il governo Usa, che ha messo a nudo il volto tutt’altro che innocente e idealista della pirateria online.